Vigilanza pubblica non solo autocontrolli aziendali
Le pressioni delle grandi aziende alimentari hanno convinto il legislatore ,anche a livello europeo ,…
Vietato parlare di austerità. Salvo poi metterla in campo senza alcuna esitazione. Sembra questo il mantra della comunicazione politica, con l’avvio del “nuovo” Patto di stabilità, dopo quattro anni di sospensione tecnica dovuta alla pandemia e alla necessità di ingenti risorse per affrontarne gli effetti economici e sociali.
Lo scorso 19 giugno, la Commissione europea ha pubblicato la comunicazione COM (2024) 598, con la quale determina l’apertura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo nei confronti di sette Paesi, tra cui l’Italia (gli altri sono Francia, Belgio, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia). Nello specifico del nostro Paese, il deficit (differenza fra entrate e uscite) nel 2023 è risultato pari al 7,4% del Pil, ben al di sopra del mitico 3% richiesto dai vincoli europei. Secondo le nuove norme del Patto di stabilità, il percorso di rientro dall’eccesso di deficit può avvenire in quattro o in sette anni (e l’Italia sceglierà questa seconda opzione).
Ma di quali cifre parliamo quando diciamo “piano di rientro”? Su questo ci viene in soccorso l’Ufficio parlamentare di bilancio, che declina il piano di rientro (se il percorso scelto è quello più ‘morbido’, ovvero i sette anni) come un taglio della spesa pubblica pari allo 0,6% annuo del Pil per l’intero periodo. Si tratta di 13 mld/anno per i prossimi sette anni, per un totale di 84 mld da sottrarre agli stipendi pubblici, alla spesa sociale, alla sanità, alla scuola e a tutti i servizi pubblici.
E nel frattempo, il governo Meloni ha già aumentato all’1,6% del Pil la spesa militare, promettendo di portarla il prima possibile al 2%, come richiesto in sede Nato.
Un primo assaggio della continuità delle politiche di austerità, e anche del bersaglio preferito delle stesse, è il Decreto che il governo si appresta a varare per il taglio alle spese a Comuni e Province previsto dalla Legge di Bilancio: 250 ml/anno per i prossimi cinque anni. Come se i Comuni e le comunità territoriali non fossero già state spolpate in questi tre decenni, è ancora su di loro che si abbatte la mannaia, con un vero paradosso: il taglio sarà maggiore per quei Comuni che hanno usufruito dei fondi Pnnr, con il risultato che se hanno messo in campo un’opera pubblica, non avranno le spese correnti per poterla gestire e dovranno quindi esternalizzarla e/o privatizzarla.
di Marco Bersani (articolo pubblicato su il manifesto del 13 luglio 2024 per la Rubrica Nuova Finanza Pubblica)